Agenzia delle Entrate: troppi rilievi privi di fondamento e la posta appetitosa del premio produttività.

In occasione della prima “Giornata Celebrativa della Giustizia Tributaria” è emerso che di ogni 10 rilievi eseguiti dall’Agenzia delle Entrate, almeno 4 sono privi di fondamento e si concludono con la soccombenza della Pubblica Amministrazione.
La percentuale sarebbe più alta se tenesse conto anche dei contenziosi che si sono estinti strada facendo (a seguito di condoni oppure per decorrenza dei termini) e di tutte quelle cartelle di pagamento in cui il ricorrente avrebbe avuto ragione sull’Amministrazione, se avesse ricorso, ma ha reputato antieconomico intraprendere la via tortuosa ed in salita del contenzioso, preferendo pagare la sanzione presumibilmente non dovuta (gli addetti ai lavori sanno, infatti, che se la cartella esattoriale non supera almeno 2.000,00 euro è sconveniente fare ricorso; ciò in quanto, anche in caso di vittoria, si uscirebbe dal contenzioso economicamente sconfitti).
Si è appreso, inoltre, che il numero dei ricorsi giacenti è in crescita: al 30 giugno 2009 erano ben 656 mila i contribuenti “in attesa di giudizio”. La dilatazione dei tempi della giustizia tributaria, provocata dall’aumento delle giacenze, apre la strada anche a fenomeni di elusione fiscale. Tutti quegli evasori che, piuttosto di pagare subito il dovuto, intraprendono una lunga lite “temeraria”, beneficiano, in effetti, di una dilazione delle imposte (elusione), in attesa o della decorrenza dei termini oppure di un condono (negli ultimi anni non è stato mai negato ad alcuno).
I giudici tributari ritengono che l’elevato numero di soccombenze e di giacenze siano causati dal comportamento dall’Amministrazione Finanziaria, in quanto i rilievi mossi non sempre sono sostenibili ed i contenziosi vengono curati distrattamente.
L’Amministrazione finanziaria, di contro, si difende sostenendo che un giudice non togato, qual è quello tributario, non offre le necessarie garanzie di imparzialità perché esposto a rischi di conflitto di interesse (attualmente nell’organo complessivo dei giudici tributari italiani si annoverano circa 740 avvocati e 330 dottori commercialisti).
Entrambi gli addetti al contenzioso tributario con funzioni diverse, sotto il peso delle critiche dell’altro, cercano, come possono, di porre dei rimedi.
L’Agenzia delle Entrate con la circolare 29E ha fornito agli uffici le linee strategiche per incrementare la sostenibilità della pretesa tributaria; inoltre, ha messo a punto il “Progetto Qualità del Contenzioso” (una sorta di vademecum per gli uffici, avente lo scopo di incrementare gli esiti favorevoli degli atti di accertamento).
Dal canto suo, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (l’organo di autogoverno della magistratura tributaria) ha adottato forme più rigorose di contrasto all’incompatibilità dei giudici: ha potenziato i controlli delle singole posizioni ed ha predisposto formulazioni sempre più penetranti di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà che i giudici devono sottoscrivere per certificare l'assenza di cause di incompatibilità.
A giudizio di chi scrive, tali rimedi sono efficienti ma non efficaci, poiché le cause dell’eccessivo numero di soccombenze non risiedono solo a valle ma si annidano anche e soprattutto a monte.
La Magistratura Tributaria, infatti, non è la sola esposta ai rischi di incompatibilità. Mi spiego meglio.

In caso di danno provocato da un dipendente pubblico è lo Stato a risarcire il cittadino danneggiato e solo successivamente lo Stato può rivalersi sul dipendente. La rivalsa non potrà mai essere esercitata nei casi di colpa lieve o comune, ma è limitata ai soli casi di dolo o colpa grave. Pertanto, un dipendente dell’Agenzia delle Entrate che effettui un rilievo, per cosi dire, “temerario” (cioè di dubbia fondatezza) ma lo fa con una negligenza minima (per esempio, lo esegue senza conformarsi al Massimario, oppure invertendo l’onere della prova a suo vantaggio) non incorre in alcuna responsabilità amministrativa, poiché la sua negligenza è considerata lieve.
Ciò in quanto si presume che il funzionario delle imposte, nello svolgere gli accertamenti, non tuteli un interesse personale né pensi al suo profitto, ma persegua un interesse assolutamente pubblico. Ma è veramente così?

L’articolo 3, comma 165, della legge 350/2003, stabilisce che il 2% di tutte le somme riscosse a titolo definitivo a seguito dell’attività di accertamento tributario e della lotta all’evasione fiscale venga ripartito tra i dipendenti delle Agenzie Fiscali (paradossalmente, la Guardia di Finanza è stata sempre lasciata fuori dalla spartizione di questa torta, alla cui lievitazione ogni anno contribuisce con oltre un miliardo di euro).
Il cosiddetto “premio antievasione”, ovvero “premio produttività”, è un riconoscimento economico che si matura solamente se si raggiungono determinati obiettivi assegnati all’ufficio (in base al complesso sistema SIRIO con cui sono valutati i pubblici dipendenti). Tale premio arriva persino a sfiorare i 19 mila euro all’anno per i dirigenti di prima fascia, ed 11 mila euro per quelli di terza fascia (totalmente pensionabili).

E’ evidente che la posta in gioco è appetitosa per chi consegue i risultati prefissati!
Esiste persino un sistema interno “di redistribuzioni di eccedenze di obiettivi raggiunti” che evita penalizzazioni per chi si trova in uffici meno redditizi per il fisco.
Orbene, non bisogna mai dimenticare che la democrazia sta in equilibrio grazie ad un delicato sistema di pesi e contrappesi. Pertanto, quando una norma pone determinati poteri nella tentazione di straripare in “orticelli privati”, bisogna prevederne sempre un’altra per arginarli; altrimenti il sistema risulterebbe sbilanciato e non sarebbe più democratico.
Il ragionamento che induce in tentazione è molto semplice. “Intanto accerto il maggior reddito, che è il presupposto per il raggiungimento degli obiettivi dell’ufficio (e quindi un futuro probabile “dividendo”); poi sarà il Giudice a decidere nel merito e lo Stato, eventualmente, a risarcire”. Le controversie pendenti, nel frattempo, continuano ad aumentare e, con esse, i casi di soccombenza dello Stato!

Si è mai pensato di elargire il premio ad un dato ufficio, al netto delle spese di soccombenza sostenute per gli atti prodotti da quell’ufficio? Oppure di prevedere anche per il pubblico dipendente delle ipotesi di responsabilità per “rilievo temerario” così come già avviene nei confronti dei contribuenti in caso di lite temeraria?
Tali piccole riforme, sicuramente, provocherebbero una riduzione dei casi di soccombenza dello Stato.

Qualsiasi ipotesi di riforma del contenzioso ovvero “progetto qualità” dello stesso, non può prescindere da un’adeguata riflessione sul seguente dilemma: “Si riceve un premio di produzione per aver raggiunto determinati obiettivi, oppure si raggiungono determinati obiettivi per ricevere un premio di produzione proporzionato?”.

di Cleto Iafrate

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