LA CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza n. 120 Anno 2018 deposito del 13 giugno 2018 «I militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale.

articolato sistema istituzionale di organismi di rappresentanza militare (artt. 1476-1482 del d.lgs. n. 66 del
2010) può comunque soddisfare le esigenze indicate dalla Corte EDU, giacché la libertà sindacale
presuppone ontologicamente la facoltà di dare vita a forme autonome di rappresentanza anche al di fuori di
eventuali strutture create ex lege.
5.− Il Consiglio di Stato dubita della legittimità costituzionale della norma in esame in riferimento
all’art. 117, primo comma, Cost., anche in relazione all’art. 5, paragrafo unico, terzo periodo, della Carta
sociale europea.
Ricorda che la Carta sociale prevede un organo denominato Comitato europeo dei diritti sociali,
nominato dagli Stati contraenti, cui è rimessa, tra l’altro, la decisione dei reclami collettivi circa
un’attuazione insoddisfacente della Carta che possono essere proposti da associazioni, nazionali od
internazionali, di lavoratori e datori di lavoro. La decisione su tali reclami, tuttavia, non solo è priva di
efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri, ma, prima ancora, non è idonea a costituire obblighi di
carattere internazionale a carico dello Stato interessato. La Carta sociale europea, inoltre, non assegna al
Comitato europeo dei diritti sociali la competenza esclusiva ad interpretare la Carta stessa.
Il Consiglio di Stato, quindi, interpretando la disposizione, ritiene che l’art. 5, paragrafo unico, terzo
periodo, della Carta, laddove rimette alla legislazione nazionale di determinare il «principio
dell’applicazione» delle garanzie sindacali ai militari nonché la «misura» di tale applicazione, intende
evocare un nucleo essenziale − sia pure ristretto, limitato e circoscritto − di libertà sindacali che non può non
essere riconosciuto anche a favore dei militari.
Ne consegue, per il rimettente, che la norma denunciata, in quanto priva in radice i militari del diritto di
«costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali», si pone
in contrasto con tale disposizione.
Del resto, la stessa Carta, nel consentire in via di eccezione, all’art. G della Parte V, restrizioni ai diritti
ed ai princìpi enunciati nella Parte I, fra cui quello afferente alle libertà sindacali, nelle ipotesi «stabilite dalla
legge e che sono necessarie, in una società democratica, per garantire il rispetto dei diritti e delle libertà altrui
o per proteggere l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la salute pubblica o il buon costume», sembra
negare la liceità di radicali esclusioni del diritto.
6.− È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o non fondata.
6.1.– Preliminarmente, la difesa dell’interveniente ha rilevato che il Consiglio di Stato non ha trattato la
questione pregiudiziale afferente all’integrità del contraddittorio, con conseguente inammissibilità della
sollevata questione per vizio dell’ordinanza di rimessione.
6.2.– Nel merito, l’Avvocatura dello Stato richiama i princìpi affermati nella sentenza n. 449 del 1999,
che ha ritenuto conforme a Costituzione l’art. 8, primo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di
principio sulla disciplina militare), norma analoga a quella denunciata.
Osserva la stessa Avvocatura dello Stato che il singolo diritto, nella specie libertà di associazione e
libertà sindacale, in quanto avente natura sostanzialmente individualistica, può incontrare determinati limiti,
e determinate restrizioni possono giustificarsi in ragione di quanto stabilito nella Costituzione.
Nella specie, per l’interveniente, rilevano come limite i princìpi di cui all’art. 52 Cost., laddove la
locuzione «sacro dovere» sta a significare che il fine della norma è quello di qualificare più fortemente,
rispetto a tutti gli altri doveri, quello di difesa della Patria e delle istituzioni. Il dovere di difesa della Patria
sarebbe specificazione del più generico dovere di fedeltà alla Repubblica e di obbedienza alla Costituzione e
alle leggi e contemplerebbe il dovere militare, organizzato nelle Forze armate, presidio dell’indipendenza e
libertà della Nazione (è richiamata la sentenza n. 16 del 1973).
Il legislatore ordinario − sempre secondo l’interveniente − ben può non consentire ai militari l’esercizio
indiscriminato di determinati diritti, ancorché trovino riconoscimento e garanzia costituzionale, ove ciò
pregiudichi la disciplina, che nell’ordinamento militare rappresenta un bene giuridico degno di tutela, atteso
che su di essa si fonda l’efficienza delle Forze armate e quindi, in ultima ratio, il perseguimento di quei fini
che la Costituzione solennemente tutela.
6.3.− È richiamata, quindi, la giurisprudenza costituzionale sul ruolo delle norme della CEDU, mettendo
in evidenza come lo stesso art. 53 della CEDU stabilisce che dette norme non possono essere interpretate in
modo da pregiudicare i livelli di tutela dei valori essenziali per la collettività riconosciuti dalle fonti
nazionali. Si assume che la restrizione imposta dalle norme denunciate persegua uno scopo legittimo, avuto
riguardo ai compiti e alle finalità delle Forze armate, che si fondano su coesione interna e sull’ordinamento
gerarchico, che rischierebbero, diversamente, di essere compromessi da contrapposizioni interne.
Si afferma anche che sarebbe garantita la proporzionalità della suddetta restrizione in ragione degli
organismi della rappresentanza militare, che salvaguardano gli interessi collettivi delle Forze armate.

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